Albano Laziale (Rm), 4 marzo 2010.
Registrazioni in studio del brano “Edoardo“.
STORIA del BRANO:
Ho varie volte raccontato, un po’ a smozzichi prima di suonarla dal vivo, la storia di questa canzone, scritta il 26 gennaio 2003. Ma so che ci sono persone che ancora non la conoscono. Perciò ne ripercorro la genesi.
La morte di Edoardo Agnelli, nel novembre 2000, mi aveva molto colpito. Avevo immagazzinato quella vicenda nell’inconscio. Conteneva qualcosa che mi aveva smosso nelle viscere alcune emozioni personali. Il destino di Edoardo parlava di incomunicabilità tra padre e figlio, ma anche in fondo di un legame affettivo fortissimo e atavico, che rappresenta le radici, da cui non si può prescindere, anche quando il fusto e i rami crescono così distanti. Mi parevano temi sempre molto attuali. Ancora ignoravo come il cuore pulsante dell’intera faccenda riguardasse, di fatto, il mio desiderio (seppure un po’ confuso) di parlare di identità. Di parlare della immane fatica a rivendicare (di fronte al mondo, alla famiglia o alla società) ciò che siamo veramente.
Quel 26 gennaio 2003 ero a Roma.
Al contrario di quanto ho sempre lasciato intuire (a volte si tende a romanzare la realtà, per il gusto fascinoso della fiaba), non avevo con me un pianoforte. Nella mia casa di via Donati, a Casal Bruciato, c’era solo una chitarra, quel giorno. E quell’accordo iniziale di “la” maggiore fu dunque preso su una vecchia acustica. Tornato a Galatone in aprile, per le festività pasquali e per festeggiare il mio trentesimo compleanno, mi chiusi un’intera notte nello studiolo di mio padre (in cui, oltre a una tastiera, c’era il PC col programma multitraccia) e, mentre tutti dormivano, provai ad abbozzare in cuffia un piccolo arrangiamento, fin troppo ricco (violini, basso, percussioni, assoli di chitarre elettriche dispiegate nel finale!), partendo proprio dal pianoforte. Per colpa di quei suoni (assai sgraziati) della vecchia tastierina Gem, il provino originario risultava pacchianamente ridondante. E soprattutto lunghissimo (oltre i sei minuti!), per la presenza di un’inutile ripetizione nella struttura, che poi (anni dopo) avrei segato. Nel testo volevo dare voce ad Edoardo, in prima persona. Ma mentre cantavo in quello studiolo, sentivo che stavo parlando a mio padre. “Di notte scrivo canzoni, poesie”: ero io, mica Edoardo. Non credo che Edoardo scrivesse canzoni, a quanto mi è dato sapere. Quando capii quest’ovvietà (non ci ero ancora arrivato, sono lento), ricordo che mi commossi molto.
Dopo quell’iniziale emozione della Pasqua 2003, a giugno cantai “Edoardo” una volta dal vivo al “Lettere Caffè” di Trastevere, con la chitarra: era palpabile la commozione, sia mia (mi tremava la voce) che del pubblico. Quella sera c’era anche Momo. Un omone gigantesco, con gli occhi lucidi, mi venne incontro a stringermi la mano, dicendomi “grazie”, mentre (timidissimo) io guadagnavo le retrovie a testa bassa, passando davanti al bancone delle birre. Eppure quel piccolo “successo” (a quanto pare) non fu sufficiente ad impedirmi di usare violenza nei confronti del brano: nei 7 anni successivi non lo suonai mai più. Sparì da tutte le scalette.
Perché tutta questa diffidenza e fastidio verso il pezzo?
Il 2003 era il periodo in cui avevo conosciuto Simone Cristicchi e le sue canzoni saltellanti, un po’ “reggate” ed irriverenti mi avevano così sconvolto da indurmi ad aprire la mente su altre possibilità di scrittura (che credevo più frizzanti e moderne), al punto da comporre “Solo su un’isola deserta” proprio influenzato da quel “mondo”. Un brano come “Edoardo” mi pareva ormai palloso e antico. Mi sembrava inoltre troppo lento (la velocità l’ho appena accelerata, dopo) e troppo lungo. Insomma, questo pezzo era un po’ un mio cruccio segreto: un qualcosa che stava lì da parte, nel PC, e che credevo addirittura mi mettesse in cattiva luce dal punto di vista musicale. Una suonata molto “classica” al piano… mi avrebbe invecchiato? Bah…
Sul finire del 2009, a un certo punto, arrivò finalmente il momento di iniziare a progettare il primo disco: dovevo scegliere i brani, tra circa 100 provini accumulati nel mio PC in diciotto anni di registrazioni. Oltre a concentrarmi su quelli che avevo già testato da tempo dal vivo (una ventina), ho dato anche un bell’ascolto a tutti gli altri. In quel periodo chiesi anche ad un amico fidato quale fosse il brano dei miei a lui più caro. E lui, con mio enorme stupore, disse: “Edoardo”. Mi si aprì un file nella testa, come si suol dire. E capii che quella roba conteneva un’emozione troppo forte, che non potevo trascurare. Iniziai a rivalutarlo, in parte.
Intanto in studio decidemmo di suonarlo soltanto col pianoforte (splendida l’esecuzione di Michele Amadori), scarno e senza arrangiamento, a parte un basso molto semplice nei ritornelli e un delicato synth nel finale. Temetti fosse un rischio, l’arrangiarla in modo così scarno. Invece avevamo indovinato.
La targa FIMI al Premio Augusto Daolio 2010 e la prestigiosa targa per “miglior TESTO” al Premio Umberto Bindi 2011 di S. Margherita Ligure, con in giuria Giorgio Calabrese, Enrico De Angelis, Armando Corsi, Gian Piero Alloisio, sancirono la rivincita che questo brano s’è preso, nel tempo, nei confronti dei dubbi (davvero poco legittimi) del suo stesso autore.
Questa canzone mi ha insegnato tanto e mi ha fatto crescere.
Forse la lezione più importante che ho imparato è quanto sia stupido bollare le canzoni con gli aggettivi di “moderne” per far loro un complimento o “antiche” per criticarle. Io avevo bollato come “antica”, escludendola per sette anni, una mia canzone riuscita. Invece avrei dovuto chiedermi solo se fosse buona oppure mediocre. Ora, quando a volte qualcuno bolla la mia musica come retrò, magari col preciso intento di criticarmi, sorrido. E la forza di quel sorriso deriva proprio dalla storia che c’è dietro a “Edoardo”.
Ho suonato la canzone anche al “Premio Ciampi 2013” e in tantissime occasioni di beneficenza, anche di grande prestigio (dal “Palladium” alla sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, fino al “Gran Teatro” di Roma e al “Premio Apollonio” di Lecce). Ormai quasi mai la tolgo dalle scalette. La rispetto.
Dalla data di pubblicazione, ricevo costantemente sia in pubblico che (soprattutto) in privato, ringraziamenti accorati da parte di un’infinità di gente, dai metallari ai bluesmen, dai dj ai jazzisti, arrivando alla conclusione finale che il brano resti a tutt’oggi il più amato in assoluto del mio repertorio.