Il videoclip di “Fa bene fa male” esce il 5 luglio 2016, realizzato con la collaborazione del vecchio amico Simone Cristicchi.
Nel video Luigi e Simone sono ossessionati dal fatto che ci sia sempre qualcuno a condizionare le loro scelte, partendo dal cibo fino ad arrivare alla pioggia di informazioni ricevute ogni giorno da giornali, radio, tv e web. Eppure sono entrambi consapevoli che, da un momento all’altro, possono rivendicare il diritto alla propria integrità di pensiero.
Il videoclip, tutto in stopmotion, è stato realizzato da Ateneriena: regia, animazioni, pupazzi e montaggio di Gianni Donvito, scenografie di Eleonora Margnelli, disegni di Margherita Valori.
Pubblicato online anche qui, da Repubblica.it
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LA STORIA DELLA CANZONE
INVERNO 2015.
Una sera, in seguito a una litigata accesa, presi la macchina e me la filai dritto al mare. Il mare d’inverno, pensai, mi avrebbe placato o disintossicato. Poi capii d’aver sbagliato canzone. Non era a Ruggeri che il mio inconscio, obnubilato dalla rabbia, cercava di attingere immagini d’empatia consolatoria. Mmm, no: doveva essere qualcun altro. Dunque. Ah sì: “L’odore del mare/ mi calmerà/ la mia rabbia diventerà amore”. Ecco chi era: Eduardo De Crescenzo! Che voce, in quegli anni ’80 della mia infanzia.
Passai rapido vicino al mare, coi finestrini abbassati. Ma “l’odore del mare d’inverno”, nel pastrocchio Ruggeri-Bertè-De Crescenzo che mi danzava in testa, arrivava più cupo e pesante del previsto, gelando l’abitacolo. Risultato: mi si stava impennando l’ansia. Benissimo. Richiusi i finestrini e fuggii poco distante, al villino dei miei, sulle colline di Mondonuovo. Entrai nella casa, fredda e umida, non c’era neanche una stufetta. Mi sedetti al vecchio scrittoio di legno della camera da letto, accesi la piccola lampada e trovai sul tavolo un block notes, con una penna. Iniziai a scrivere con una rabbia forsennata, per scaricare quella tensione insostenibile. Quando il furore diminuì, rilessi stupito ciò che avevo scritto: erano due strofe e una specie di ritornello. Vi erano raccontate immagini di guerra, cruente. Cose che mai m’era capitato di descrivere prima. Scrissi anche il titolo: “Il giorno in cui presi il potere”. Una specie di generale e il suo esercito scalmanato, in un tempo imprecisato della storia (che doveva essere piuttosto antico, pare), stavano letteralmente facendo a pezzi le legioni nemiche, in una battaglia devastante. Alla fine della carneficina, il comandante si era assiso su un trono, autoproclamandosi Capo Supremo dell’intera regione. A quel punto, a sorpresa, e per gli anni a venire, si era trasformato in un governante buono e giusto, magnanimo col popolo, indossando simbolicamente un copricapo di paglia.
Restai esterrefatto da quella strana storia, pur mozza. Ma mi sentivo molto meglio, già solo per il fatto d’aver scaricato su carta e in versi quella smania rabbiosa che mi attanagliava il respiro. Ho subito pensato che la “conversione” finale del dittatore, dal Male al Bene, fosse semplicemente dovuta al fatto che, mentre scrivevo, già mi calmavo, manco avessi ingurgitato un ansiolitico potente. Abbandonai quel foglio in un cassetto: non avevo più urgenza di continuare a scrivere. Non ne sentivo più la spinta o la necessità fisica. Mi bastava così.
7 NOVEMBRE 2015.
Sette o otto mesi dopo, verso i primi di novembre 2015, la scrittura del nuovo album era ormai in pieno rush finale. Mi mancavano solo un paio di brani per completare il disco. Ma occorreva qualche altro spunto. Come spesso capita, sono andato a riascoltarmi varie bozze di musica conservate negli anni nel pc, ma non c’era nulla che mi folgorasse. Allora sono passato agli appunti di idee di “testo”, sparsi nei file word. E, mentre passavo in setaccio ogni titolo, mi è riapparso “Il giorno in cui presi il potere”. Ricordai bene la circostanza di alcuni mesi prima. Rilessi il testo, mi colpì. Presi la chitarra (gesto che promette sempre bene) e cercai di musicarlo con una ritmica incalzante in re maggiore, accompagnata da pochi semplici accordi e una melodia in crescendo. Canticchiai varie volte quelle due strofe, col ritornello. Mi piaceva l’impasto testo-musica. “Forse ci siamo”. Preso da un briciolo di entusiasmo, mi accinsi dunque a completare il testo, visto che restava ancora solo a metà. E a quel punto accadde una cosa inaspettata: di colpo mi accorsi d’aver via via perso ogni curiosità, in quei mesi, per la storia del dittatore. Ma… ma come, Luis! E che cazz, proprio sul più bello? Sì. Proprio l’elemento che all’inizio mi aveva catturato di più, ossia il fascino di una storia ambientata in un passato molto antico e imprecisato, ora mi risultava del tutto privo di interesse e poco accattivante. Era troppo distante dalla realtà e dalle mie esigenze di quel momento. Ho cercato di trovare svariati ganci col quotidiano, per riappassionarmi alla storia. Ne ho anche trovati moltissimi, eh. Ma ormai avevo perso mordente per il dittatore, sempre più conscio che quella storia fosse solo uno sfogo del momento, utile per sbollentare la furia.
Però la musica mi piaceva, cavolo. Mi pareva un peccato cestinarla.
“E mo’?”. Bel dilemma.
Decisi di salvarla. E iniziai subito a pensare a un testo completamente diverso.
Ripresi l’elenco di idee, appuntato nel pc. Tornai a scorrere tutti quei titoli, segnati con cura negli anni. Fino a che non m’imbattei in “Fa bene fa male”. Non ricordavo più il vero spunto per cui l’avessi segnato lì, tra i temi da sviluppare, ma sentii che fosse l’argomento che cercavo, vista la totale confusione in cui regna l’essere umano medio, scombussolato dal bombardamento d’informazioni (spesso contraddittorie) ricevute a ogni ora e a ogni secondo dal web, dai giornali, dalla radio e dalla TV.
Ma non partii mica dalla scrittura del testo. No.
Presi prima la penna e riempii tre fogli interi di sostantivi (moltissimi riguardanti il cibo, ma non solo), su cose/oggetti/concetti che potevano fare bene o male. Iniziai da lì. A quel punto, davanti a quel vero “tavolo di lavoro” o tavolozza di colori, pescai quasi a caso gli ingredienti che mi servivano, da inserire ad hoc nella griglia del testo. Che dunque venne fuori (stranamente) con una velocità che, in genere, non mi appartiene.
Me la suonai più volte. Mi convinceva.
Registrai subito un provino, chitarra/piano/voce e la riascoltai un bel po’, per smussare e correggere. Riaggiustai infatti qualcosa nella melodia del ritornello, che all’inizio era una banale scala discendente, quindi meno articolata e più lineare nel canto. Andava resa meno banale. Mi dissi: “Già l’armonia è la più semplice dell’intero disco: almeno la melodia del canto voglio che si muova di più”. La lavorai un po’ al piano, fino a quella attuale.
A furia di riascoltare il provino e il testo, riflettei sul quell’elenco di nomi urlati, che arrivava verso la fine, dopo lo special: un indiretto voluto omaggio al mito di Rino Gaetano. E fu lì che mi feci venire l’idea-Cristicchi. Sapevo dell’amore di Simone per Rino. Tra l’altro Simone sarebbe dovuto esserci nel mio primo disco, “Asincrono”, a duettare con me in “Solo su un’isola deserta”, un pop-reggae saltellante, che risentiva molto della sua influenza di scrittura e del periodo in cui ci siamo conosciuti e frequentati. Avevo molto ricevuto da lui: dal punto di vista umano e musicale. Ma poi il duetto era saltato: lui nel febbraio 2010 cantava di Carla Bruni a Sanremo, proprio mentre io registravo il disco. Insomma: era rimasta appesa una strana vecchia promessa, tra noi. Ricordavo anche molto bene come, nel 2004, lui mi avesse regalato un monologo, “La musica dei supermercati”, che conteneva un elenco impetuoso di immagini, buttate in faccia con ironia e furore, con intenzioni simili a quelle di Fa bene fa male.
Pensai: “Questa mia canzone è perfetta per Simone”.
Gli scrissi, gli spiegai tutto e gli mandai il provino, senza pressarlo minimamente.
Mi rispose subito: “Forte! La faccio”.
FEBBRAIO 2016: I TORMENTI E LE REGISTRAZIONI.
Tre mesi dopo, in studio, mi accorsi che quel re maggiore lo reggevo proprio a fatica, vocalmente. Con Alberto Lombardi, decidemmo di abbassare la tonalità al do diesis attuale. Non mi è mai accaduto in vita mia di cambiare una tonalità addirittura in studio: non sono cose che faccio all’ultimo momento, mentre sto registrando. In genere lo capisco sempre nei primi tempi di scrittura del brano.Ma quella volta fu diverso.
Nei giorni che precedettero l’arrivo in studio di Cristicchi, entrai in una sorta di improvviso “tormento”, una vera e propria “pippa mentale”, figlia a volte dello stress del parto per un nuovo disco: volevo calibrare meglio l’argomento e cambiare il titolo della canzone, rimettendo pesantemente mano al testo! Anche questa cosa non mi era mai accaduta in fasi così avanzate della produzione di un disco. Motivo di questi tormenti? Dopo che un amico mi aveva fatto notare alcune similitudini di testo col ritornello de “L’Assenzio” di Morgan (non me n’ero accorto assolutamente!), i concetti di bene e male mi apparvero di colpo in tutta la loro ovvietà. Riscrissi dunque il titolo, “Ti cura o ti uccide” e riaggiustai il testo, per riadattarlo all’argomento ancora più specifico. Mi piaceva molto di più. Era poi un ponte ancora più diretto con la mia storia personale di studi medici. Risuonai persino tutto il provino, col nuovo testo, e lo mandai ad Alberto e Pierre, felice.
Mi presero per pazzo.
Mi dissero che così facevo perdere forza alla canzone, che nel suo titolo universale invece capivano anche i bambini. Insistetti molto: ero deciso e convinto a spazzare via quella cazzata di titolo. Loro non erano per nulla d’accordo, ma mi rispettarono. Decisi di chiedere anche il parere di Simone, visto che doveva cantare nel brano. Se Simone fosse stato d’accordo con me, avrei avuto un alleato e anche Pierre e Alberto avrebbero ceduto.
Il 3 febbraio 2016 Simone venne in studio ad Albano, a cantare.
Mi disse subito che non era d’accordo assolutamente a cambiare il titolo: per lui “Fa bene fa male” era perfetto. Tre contro uno: mi dovetti arrendere. A suffragare le sue convinzioni ci fece ascoltare “Io sto bene” dei CSI, in cui Giovanni Lindo Ferretti canta “io sto bene/io sto male”. Simone mi aprì gli occhi, facendomi capire che la contrapposizione bene-male la potevano cantare tutti, visto che se ne parla fin dalla bibbia, e ognuno la affronta secondo il proprio gusto artistico e sensibilità: nessuno può vantare patenti di originalità in campi che sono vecchi come il mondo, nessuno ha il copyright su un argomento talmente vasto e gigante. Sarebbe come averlo sul vento e il mare, il bianco e il nero, la vita e la morte.
Piuttosto c’erano due cose, nel testo, che non lo convincevano. In origine io avevo scritto “beccare sui social le frasi bigotte”. Mi spiegò che sostituire il termine “social” (troppo generico) con “facebook” poteva rivelarsi saggio. Gli diedi ragione. Poi lesse e rilesse l’attacco dei ritornelli, che in origine faceva così: “Mi scuso con voi se sarò malvisto”. Simone, perplesso, mi chiese: “Ma perché ti scusi?”. “È vero”, risposi, “sono troppo educato. Nasce da quello”.
Riscrissi allora un attacco diverso, una rivendicazione più decisa, rispettando le assonanze: “Non è per il gusto di entrare in contrasto…”. Come a dire: non è per spirito di contraddizione che prendo le distanze da queste vostre convinzioni assolute: lasciatemi in pace, a coltivare i miei dubbi amletici.
A Simone piacque.
Poi si appartò cinque minuti, aggiunse varie parole e nomi all’elenco impetuoso che doveva cantare sul finale del brano, si mise le cuffie e, omaggiando (oltre a Rino Gaetano) anche Remo Remotti, ci regalò al microfono un’invettiva trascinante ed esilarante, un elenco parossistico, in crescendo, da farci piegare in due dalle risate.
E finalmente si poté mettere un punto definitivo a quella lunga storia.